Se vi sentite sopraffatti dalla sostenibilità, non siete soli. Il tema è diventato onnipresente, influenzando sia le organizzazioni che la vita quotidiana. Ma esistono aspetti negativi? Non proprio. Tuttavia, in un mare di informazioni da varie fonti, è difficile distinguere cosa sia reale e cosa sia solo apparenza. La sostenibilità non riguarda solo l'ambiente, ma anche il benessere dei dipendenti nelle aziende. Questo è ciò che spiega Paolo Astrua, ESG Expert e Founder di Citiculture, startup italiana che attraverso la rivalutazione del territorio urbano dà vita non solo a dei veri e propri simboli di sostenibilità, ma crea un valore aggiunto per il benessere delle aziende e dei propri dipendenti.
Si fa un gran parlare di sostenibilità: opinione pubblica, media e istituzioni sembrano tutte concentrate su questo tema. Stiamo vivendo una rivoluzione culturale?
Piuttosto una rivoluzione economica. Nuove tecnologie per produzione e uso di energia stanno crescendo. C'è molta attenzione sulla decarbonizzazione, ma è essenziale affrontare il cambiamento praticamente, non ideologicamente. Implicazioni pratiche importanti per imprenditori e consumatori.
Quali implicazioni pratiche ci sono per un’azienda?
Beh la sostenibilità, per chi produce, ha due volti: interno, legato a tecnologie e pratiche per abbattere consumi e gestire rifiuti, ed esterno, che considera gli impatti sulla comunità e sul territorio. L’ambiente è solo uno di questi.
E anche qui c’è una convenienza?
Certo, a medio lungo termine. Svolgere attività imprenditoriale con attenzione al benessere collettivo è buon senso, non solo obbligo normativo.
È come “pescare con la dinamite”: azione efficace a breve termine, ma dannosa per il futuro. Se distruggo risorse e clienti oggi, domani non avrò più nulla da vendere.
Dici che come driver di innovazione sostenibile basterebbe il buon senso; ma guardando alla Corporate Sustainability Reporting Directive, in realtà esiste un obbligo progressivo di rendicontazione non finanziaria sulle aziende, partendo dalle più rilevanti per poi allargarsi ad aziende via via più piccole. Molte delle ultime la vedono come un’imposizione pesante. È così?
Guarda, avrai capito che non sono proprio il tipo da Fridays for Future, perciò credimi se ti dico che non è così.
Il bilancio di sostenibilità può sembrare un obbligo formale, ma c'è il rischio di produrre un documento vuoto solo per ottemperare ai requisiti. È importante considerare che rispettare gli standard di trasparenza per la raccolta e la misurazione dei dati è essenziale per il Bilancio di Sostenibilità.
Non ci sono obiettivi quantitativi da raggiungere, ma l'azienda deve spiegare le sue azioni senza necessariamente fissare obiettivi specifici. Inutile mentire, la sincerità è sempre la scelta migliore.
E questo non rafforza l’idea che l’obbligo sia del tutto formale? A cosa serve rendicontare se poi nessuno valuta?
Qui casca l’asino: certo che qualcuno valuta anche i risultati, ma non sono le istituzioni: è il mercato.
Soddisfatta la compliance normativa, torna a farsi valere la forza della concorrenza: è il cliente, il consumatore, ma anche l’investitore, la banca, il fornitore ad interessarsi degli impatti ESG di un’azienda, a paragonarli con quelli della concorrenza. Anche per accedere a bandi, o finanziamenti bancari, ormai, la presenza di una buona rendicontazione sociale fa la differenza.
Ma se anche gli impatti diventano un fattore di concorrenza, allora non c’è il rischio che qualcuno “imbrogli”? Ne vediamo tante di pubblicità “impegnate”: oggi non c’è un prodotto che non sia presentato come benefico per il pianeta. Ma è davvero così?
Qui emerge un secondo grande rischio, quello del greenwashing, cioè quello di dire cavolate per sembrare eticamente migliore agli occhi del mercato.
È proprio quando emergono simili situazioni che le aziende, anche quelle apparentemente meno interessate alla sostenibilità, scoprono che è un bene che esista una normativa sulla rendicontazione non finanziaria, perché li protegge dalla concorrenza sleale.
Hai parlato di libero mercato e di concorrenza: ci sono impatti anche sul mercato del lavoro?
Sicuramente sì. Il benessere del dipendente primo fra tutti: lavoratori sereni sono lavoratori più produttivi e fedeli all’azienda, nella quale possono riconoscere un luogo di appartenenza. Il Covid ha cambiato le abitudini lavorative di molti, creando consapevolezza sul valore del comfort lavoro.
Lavorare anche su impatti sociali a favore dei propri dipendenti vuol dire investire su uno staff più produttivo e che si riconosce nella cultura aziendale: il sogno di tante organizzazioni.
In più, un ambiente di lavoro attento rispetto alle tematiche ESG è molto concorrenziale in termini di attrazione di nuovi talenti: le generazioni più giovani danno un grande peso agli elementi non economici delle offerte di lavoro.
Cosa dovrebbe fare un’azienda che vuole approcciare seriamente la sostenibilità oggi?
Innanzitutto, mantenere la calma e riflettere su quali sono le aree in cui ha interesse a generare impatti. Quindi: i desiderata e le percezioni di management o della proprietà in materia, affiancati da una buona analisi di materialità per capire se ci sono aree interessanti “nascoste”.
Fissare delle priorità è utilissimo, e anche per questo fare rendicontazione non finanziaria conviene: approcciare il primo Bilancio di Sostenibilità vuole dire darsi degli obiettivi e misurarsi. Di fatto significa avviare un track record dei propri progressi negli anni, e quindi anche investire nella propria capacità di misurare l’efficienza. Non per niente di solito l’impegno ESG porta in azienda nuove competenze e innovazione tecnologica.
Dopodiché si scelgono le azioni più utili per generare gli impatti, e i modelli di monitoraggio, rendicontazione e redazione della reportistica. È un lavoro complesso ma interessante, con benefici per tutta la popolazione aziendale e anche gli stakeholder esterni.
Noi, ad esempio ci siamo lanciati nel green-tech, con la proposta della vigna come strumento per la generazione di impatti ESG: aiutiamo l’azienda a generare l’impatto ambientale, sociale e di governance attraverso la propria vigna, di solito sul rooftop; a misurarlo, a raccontarlo, a migliorarlo.
L’approccio giusto, a nostro parere è quello introdurre un tema nuovo in azienda facendosi carico di tutte le complessità iniziali. Ci sembra un buon biglietto da visita, insieme ovviamente all’idea di trovarsi una vigna sul tetto, un bene con un certo standing e un certo effetto positivo.
E immagino anche “scenografico”…
Certo, e facilmente comunicabile. Ma al di là di quello che facciamo con Citiculture, c’è un’indicazione di carattere generale che secondo me può aiutare l’azienda anche a scegliere a chi rivolgersi per migliorare la propria sostenibilità: noi siamo grandi sostenitori di un approccio localizzato e territoriale. Voglio dire che la cosa più bella di “fare sostenibilità” è restituire un valore in loco, a chi vive attorno all’azienda, a chi vede gli uffici dalla strada. Non c’è niente di male a comprare crediti di carbonio, sia chiaro, o ad adottare un albero dall’altra parte del mondo. Ma non è forse più bello legarsi al posto in cui si lavora, concentrando gli impatti sulla popolazione che ci circonda?